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Anno N. -
Editoriale
Non è una novità per chi si occupa di politiche di digitalizzazione e di protezione dei dati, osservare inesorabilmente i lenti passi che il nostro Sistema Paese sta portando avanti in questo settore. E, come sappiamo bene, non si può avviare un progetto di digitalizzazione senza essersi prima preoccupati della protezione dei dati personali.
Era così in passato, è ancor di più oggi, nel momento in cui è pienamente in vigore il Regolamento 679/2016 (General Data Protection Regulation) con i suoi principi di privacy by design e privacy by default. Non stupiscono le ennesime rilevazioni DESI che ci confermano come Paese bloccato e ben saldo al venticiquesimo posto -su ventotto Paesi in Europa – in materia di digitale. E infatti il quadro che ci riguarda è davvero desolante dopo tutti questi anni di vacuo storytelling passati a raccontare ciò che il Paese dovrebbe diventare e non è mai diventato. Si è cercato con ostinazione, da una parte, di non riconoscere i problemi (che sono tanti) e dall’altra, di generare facile entusiasmo attraverso narrazioni piuttosto oniriche (a volte veri e propri vaneggiamenti) su rivoluzioni digitali in atto.
Ma siamo fermi, inceppati da tempo.
I fatti raccontano un’Italia digitale bloccata, sia a livello strutturale, sia a livello normativo, dove l’ennesima modifica del Codice dell’amministrazione digitale ormai non fa più notizia, a maggior ragione se non è seguita da regole tecniche che dovrebbero invece aiutare gli addetti ai lavori a ragionare su progetti concreti da sviluppare.
In modo rassegnato si è in attesa sia del termine del mandato del Commissario straordinario per l’attuazione dell’Agenda Digitale (previsto per il 15 settembre) e sia della prossima nomina del nuovo Direttore dell’Agenzia per l’Italia Digitale. Anche il GDPR vive una fase di incredibile sospensione perché, da mesi, si attende che arrivi il decreto di coordinamento con il Codice della protezione dei dati personali. E persino laddove il passo sembrava segnato, come per la fattura elettronica, arrivano incredibili proroghe su innovazioni che continuano a far paura.
Insomma, siamo in una palude e non abbiamo al momento funi alle quali aggrapparci, perché le strategie a lungo termine non sono state disegnate e quelle a breve termine sono tratteggiate confusamente in un Piano Triennale piccolo piccolo anche se formalmente presentato in modo aperto al confronto, forse con la speranza di raccogliere qualche buona idea – che fino ad oggi è mancata del tutto- . Forse più che di buone idee, occorrerebbe ripartire da solide basi e soprattutto dal saper osservare quel che di buono qualche PA è riuscita comunque a sviluppare in questi anni.
Ovvio che in questa situazione piuttosto disarmante e rassegnata ci siano, infatti, poche e timide novità all’orizzonte da segnalare ed esse arrivino spesso dal coraggio di qualche PA stimolata magari da (pochi) privati con voglia di investire (tempo e/o denaro). Se continuiamo ad andare avanti così, resteremo fermi al palo per i prossimi anni, in un mondo ormai digitale e saremo destinati quindi a un costante e veloce declino che dovrebbe farci paura.
Non paura di sanzioni, ma di una stagnazione permanente che ci potrebbe portare a retrocedere a Paese da terzo mondo informatico (se non lo siamo già).
L’Italia vive di politiche di innovazione basate ancora su un’arcaica concezione del digitale a costo zero e su una rinnovata propensione a stimolare la crescita attraverso community di nerd a cui affidare fideisticamente il nostro futuro, perché “tanto le PA e comunque gli altri comuni mortali non informatici non hanno il dono dell’innovazione e vanno messi da parte”! Si è creata così una sorta di contraddizione permanente tra professionalità diverse che dovrebbero dedicarsi al digitale, quando invece i progetti di trasformazione avrebbero bisogno nella loro complessità di approcci multidisciplinari e di menti abituate al confronto.
A ben vedere, l’unica parola oggi in grado di provare a raddrizzare una rotta che sembra destinata a farci frantumare sugli scogli di un mondo che non può più aspettarci è l’accountability. Non solo per la protezione dei dati personali, ma per tutte le politiche di innovazione e digitalizzazione di cui ha bisogno il nostro Paese. Abbiamo disperato bisogno di responsabilizzazione documentata di ruoli, scelte, procedure con la piena consapevolezza della situazione e della complessità della nostra realtà amministrativa (e anche aziendale) e dei mutamenti costanti a cui ci sottopone una realtà profondamente diversa, che va, quindi, affrontata insieme, con strumenti e professionalità multidisciplinari. La sensazione che si prova a vivere oggi nel nostro Paese, ricorda vagamente il leitmotiv spietato e formalmente sereno raccontato nel film “American Beauty”[1]: “mai sottovalutare il potere della negazione…”. Ripartiamo invece guardandola in faccia la realtà che ci riguarda, senza nasconderla o negarla, e prendendola invece per le corna: le nostre armi potranno essere formazione e professionalità diverse, a servizio di strategie responsabili e di lungo termine.
Ma dobbiamo volerlo con tenacia e convinzione.
[1] Un film di Sam Mendes. Con Kevin Spacey, Annette Bening, Thora Birch, Wes Bentley, Mena Suvari. USA 1999.
- Avvocato - esperto in diritto applicato all'informatica e protezione dei dati
Sommario
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