Profonda paura, il sole che scortica e brucia la pelle, il gommone inizia a riempirsi di acqua, bambini che urlano. E poi acqua nera come la pece. Il respiro che manca, il senso di oppressione, l’impossibilità di urlare, l’acqua nei polmoni, gli occhi che si gonfiano fino a quasi uscire dalle orbite. La realtà virtuale potrebbe provare a rispondere in questi ultimi tempi all’esigenza, del tutto paradossale, di farci sperimentare delle situazioni estremamente reali e difficili, utili a calare lo spettatore in circostanze del tutto simili, ad esempio, a quelle vissute dei migranti che provano ad approdare sulle nostre coste accettando viaggi pericolosissimi.
Alcune forme di realtà simulata stanno, infatti, assumendo connotati sempre più simili a quelli di macchine dell’empatia i cui effetti sono al centro delle sperimentazioni non solo di nerd ed appassionati del tech, ma anche di numerosi artisti, che hanno incontrato nel linguaggio delle nuove tecnologie un canale diretto per arrivare a impressionare lo spettatore e sensibilizzarlo su alcune tematiche al centro del dibattito umanitario.
È il caso di Carne y Arena l’installazione artistica del regista Alejandro Inarritu che permette di immergersi nell’esperienza di un migrante che dal Messico attraversa la frontiera con gli Stati Uniti. Si legge che l’esperienza immersiva creata da Inarritu: “ricrea un episodio di terrore che dovrebbe mandare in frantumi ogni illusione che si possa risolvere il problema globale dell’immigrazione alzando muri e brutalizzando persone indifese”. L’obiettivo può essere addirittura politico: “Né gli Stati Uniti né l’Unione Europea comprendono davvero quanto sia corrosivo militarizzare le frontiere contro i rifugiati, e gli effetti disumanizzanti che le esperienze come quelle vissute in Carne y Arena possono avere sugli stessi ideali che crediamo di difendere”.
Nonostante l’artista abbia inibito le possibili conseguenze politiche di questa tecnologia proprio allo scopo di evitare di “intellettualizzare” troppo, si stanno moltiplicando le interpretazioni in tal senso.
Altre esperienze in realtà virtuale puntano invece a immergerci nella vita di un senzatetto (Becoming Homeless) o di chi subisce aggressioni razziste (1000 Cut Journey) e ancora di chi vive in isolamento carcerario (6×9) e altro ancora.
Da un punto di vista squisitamente giuridico, mi pare di notare che la prospettiva visionaria dell’artista sia proprio quella che negli ultimi tempi sta mancando di più a livello normativo.
La politica si sta sforzando di rincorrere la realtà spesso con risultati piuttosto mediocri, caratterizzati da accenti retrogradi, anziché prevenire i bisogni del nostro tempo, per renderci indipendenti dal nostro guscio di egoismo, anticipando il domani, se non addirittura il dopodomani (come sosteneva il compianto Aldo Moro[1], altra vittima delle perversioni politiche di questo strano Paese).
In altre parole, i risultati di queste sperimentazioni immersive potrebbero davvero servire a renderci persone migliori? O a far cambiare idea sul trattamento da riservare ai migranti ad un Matteo Salvini o ad un Donald Trump? O quanto meno a far percepire al loro elettorato quanto possa essere disgustoso e agghiacciante accettare politiche che possano consentire di far soffrire così degli esseri umani?
Probabilmente il potenziale, finora inesplorato, dell’IA risiede anche in questo e potrebbe rivelare degli effetti addirittura amplificatori della capacità “predittiva” del nostro sistema normativo. Pensiamo allo stesso excursus del GDPR, a cui abbiamo assistito in questi ultimi anni, che ha completamente rivoluzionato il concetto di privacy, affiancandolo a quello di “responsabilizzazione” (accountability).
E quanto potremmo, ad esempio, essere “responsabilizzati” provando la rabbia o lo stato di isolamento e smarrimento di una discriminazione sociale causata da una diffusione illecita di dati personali particolarmente intimi e sensibili?
Stesso concetto, se affiancato alla politica, grazie all’ausilio delle nuove tecnologie, potrebbe aiutarci a ribaltare la prospettiva di “responsabilizzazione” nei riguardi della cosa comune e viceversa, responsabilizzandoci a livello di partecipazione, su più fronti.
È questo il caso non solo della “questione migranti”, ma anche della “questione rifiuti”, così come di ogni altro scenario aperto: occorre agire, responsabilizzandoci, specie rispetto alla fase della scelta, quella elettorale. Non possiamo pensare di affidare tutta la nostra capacità di azione solo ed esclusivamente alla tastiera, guidata dalla pancia rabbiosa di un profilo social…quella pancia che ha costretto addirittura un GIP a chiudere il suo profilo social a causa di minacce e insulti ricevuti in seguito a una (peraltro giuridicamente e moralmente condivisibile) decisione in merito al caso di Carola Rackete.
Forse l’ultima speranza per crescere culturalmente è nelle mani virtuali di una cultura empatica. Siamo del resto così stanchi e abituati a non approfondire più e a non leggere noiosi libri di carta che l’unico modo che ci è rimasto per riflettere è provare direttamente un’emozione senza la mediazione sognante dello scritto.
[Articolo pubblicato all’interno del Blog di Andrea Lisi su HuffPost]
[1] M. Di Sivo (a cura di) ‘Le lettere di Aldo Moro dalla prigionia alla storia’, Roma, Mura, 2013. Fonte: Direzione Generale degli Archivi