Processo Civile Telematico: la firma digitale è equiparata alla sottoscrizione autografa

A riconoscerlo è la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 22871 del 10 novembre 2015, la quale si è pronunciata in merito al Processo Civile Telematico (PCT) e alla firma digitale, in seguito a un ricorso in cui si sosteneva che la sentenza firmata digitalmente fosse da ritenersi inesistente, in quanto priva della sottoscrizione autografa ex art. 132, n. 5, c.p.c.
Secondo la Corte, la sentenza redatta in formato elettronico dal giudice e da questi sottoscritta con firma digitale ai sensi dell’art. 15 del D.M. 21 febbraio 2011 n. 44, non è affetta da nullità per mancanza di sottoscrizione, sia perché sono garantite l’identificabilità dell’autore, l’integrità del documento e l’immodificabilità del provvedimento, sia perché la firma digitale è equiparata, quanto agli effetti, alla sottoscrizione autografa in forza dei principi contenuti nel D.Lgs. 7 marzo 2005 n. 82 e succ. mod. (CAD), applicabili anche al processo civile, per quanto disposto dall’art. 4 del D.L. 29 dicembre 2009 n. 193, convertito nella Legge 22 febbraio 2010 n. 24. Secondo il ricorrente, la sentenza conterrebbe solo la firma digitale e non la sottoscrizione del giudice e, per tale motivo, non sarebbe possibile l’identificazione del suo autore; in più, secondo la tesi dello stesso ricorrente, la normativa che ha introdotto nell’ordinamento la firma digitale non sarebbe applicabile alle sentenze, in quanto presupporrebbe uno scambio telematico di atti, che, per le sentenze, non è previsto; pertanto, la sentenza recante la firma digitale sarebbe mancante di sottoscrizione ai sensi dell’art. 132, comma 2, n. 5, c.p.c., e perciò inesistente.
La Corte, però, ha ritenuto ovviamente infondata tale tesi. Al contempo, è chiaro che, secondo la giurisprudenza di legittimità, la sottoscrizione della sentenza da parte del giudice costituisce un requisito essenziale della giuridica esistenza del provvedimento, la cui mancanza ne determina la nullità assoluta e insanabile.
Ma questo vizio sussiste solo quando è impossibile ricondurre un determinato provvedimento all’espressione dell’attività giurisdizionale del giudice che ne è l’autore.  
In tal senso, la Cassazione ha osservato che è innegabile che siano ontologicamente diverse la natura della sottoscrizione, intesa come atto consistente nell’apposizione olografa da parte dall’autore del documento del proprio nome e cognome, e quella della firma digitale, composta invece “da una duplice sequenza crittografica di byte volta a costituire il segno personale di chi la appone”. Tuttavia, l’equiparazione dell’una all’altra, ai fini della validità della sentenza, è possibile non per via interpretativa, ma soltanto per via legislativa, in particolare attuata dalle norme di legge relative proprio al processo telematico.
Nel caso di specie, infatti, la sentenza è stata redatta nel formato digitale, quindi con gli strumenti di cui all’art. 16 del Provvedimento 18 luglio 2011 (contenente le “Specifiche tecniche previste dall’articolo 34, comma l del decreto del Ministro della giustizia in data 21 febbraio 2011 n. 44, recante regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione, nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni, ai sensi dell’articolo 4, commi 1 e 2 del D.L. 29 dicembre 2009, n. 193, convertito nella Legge 22 febbraio 2010, n. 24”), attualmente sostituito dal Provvedimento 16 aprile 2014. 
I riferimenti normativi, tenuti in conto dai giudici della Cassazione, sono dunque il CAD (D.Lgs. 82/2005), il DPCM 22/2/2013 (Regole tecniche sulle firme elettroniche) e il DPCM 13/11/2014 (Regole tecniche sulla formazione dei documenti informatici). 
La Corte, sulla base, quindi, di tali normative, ha affermato nella sua pronuncia che i principi generali del CAD sono applicabili anche in ambito processuale e le relative disposizioni disciplinano gli atti del processo civile redatti in forma di documento informatico (art. 1 lett. p e art. 20 CAD) e sottoscritti con firma digitale (art. 1 lett. s e art. 21 CAD). 
I giudici hanno poi stabilito che la firma digitale, quando si trova “in calce” alla sentenza1 , soddisfa lo scopo per il quale ne è prescritta la sottoscrizione, ossia quello della riconducibilità del provvedimento al giudice che risulta averlo emesso e che è l’unico titolare della firma digitale. In particolare, l’art. 21, comma 2, del CAD consente di equiparare la firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, formata nel rispetto delle regole tecniche, alla firma autografa, ossia quella apposta di pugno dal soggetto autore del documento. 

Pertanto, si ripete, la Corte è pervenuta alla conclusione che la sentenza redatta in formato elettronico dal giudice e da questi sottoscritta con firma digitale non è nulla per mancanza di sottoscrizione, non solo perché l’autore è sempre ben identificato e l’integrità del documento e l’immodificabilità del provvedimento sono fatte salve, ma anche perché la firma digitale è equiparata, quanto agli effetti, alla sottoscrizione autografa in forza dei principi contenuti nel CAD e applicabili al PCT.

[1] Appare utile ricordare che una firma digitale non può realmente essere apposta in calce a un documento informatico. Si continua, così, ad utilizzare una terminologia cara alla carta, dimenticando che il documento informatico non è “carta informatica”. Piuttosto, appare opportuno ricordare che le modalità di apposizione di una firma sono disciplinate dalla normativa tecnica contenuta nel DPCM 22/02/2013, nella deliberazione CNIPA 45/2009 e dagli standard internazionali ivi richiamati.  

Redazione26 Novembre 2015