L’Atto amministrativo prima del D. Lgs. 39/93
Autorevole ed unanime dottrina (GIANNINI) parte dal principio generale di libertà di forma degli atti amministrativi sino ad arrivare ad ammettere, a titolo di eccezione alla citata regola generale, la necessità della forma scritta per la maggior parte delle tipologie di provvedimenti da porre in essere da parte della PA (ovvero per quegli atti in cui la forma scritta è prevista dalla legge o è richiesta dalla natura stessa dell’atto).
La giurisprudenza amministrativa, poi, si è pronunciata nel tempo nel senso di richiedere la forma scritta ad substantiam anche nel silenzio della legge, in quanto necessaria per garantire la certezza dei rapporti e rendere possibile il successivo controllo, non solo giurisdizionale, sull’operato delle pubbliche amministrazioni, il tutto in funzione della realizzazione del principio costituzionale del buon andamento (art. 97 Cost.). Corollario della necessaria esternazione in forma scritta dell’atto è la sua sicura riferibilità all’autorità emanante, in modo da poter risalire facilmente al suo autore e consentire la definizione delle relative responsabilità (Orofino A. G., Forme elettroniche e procedimenti amministrativi).
Inizialmente, pertanto, la sottoscrizione del provvedimento amministrativo costituisce requisito della sua validità, sottoscrizione che deve necessariamente provenire dalla persona fisica titolare dell’organo competente ad emanarlo. Nel caso di mancanza della sottoscrizione, l’atto è nullo proprio per l’impossibilità di riferire tale atto a un determinato soggetto/organo.
In verità, la sottoscrizione quale requisito di validità viene man mano, per così dire, “sgretolata” da una serie di pronunce giurisprudenziali che circoscrivono sempre di più la necessità della firma autografa, ammettendo la valida esistenza di provvedimenti anche quando la firma manchi:
- nel caso si tratti di atti privi di rilevanza esterna (cd. “atti endoprocedimentali”);
- o quando la provenienza dell’atto è ricavabile aliunde, ovvero da altri elementi diversi dalla firma, purché l’attività amministrativa posta in essere consista sostanzialmente in certificazioni o accertamenti di fatto, o nella riproduzione del contenuto di altri atti.
Invero, tale principio era contenuto già nell’art. 15-quinquies del D.L. 28.12.1989 n. 415 applicabile agli atti anagrafici e di stato civile, che prevede che tali tipologie di certificazioni in cui la sottoscrizione dell’ufficiale d’anagrafe o di stato civile sia stata sostituita da quella in formato grafico del sindaco o dell’assessore delegato, sono validi a tutti gli effetti di legge qualora la loro originalità sia, però, garantita “da accorgimenti che non ne consentano la riproduzione per copie, come l’utilizzo di fogli filogranati o timbri a secco“.
Sembra quasi che il legislatore e la giurisprudenza siano “dilaniati” tra l’esigenza di semplificare la “produzione” di atti amministrativi e quella di garantire comunque la loro sicura riconducibilità all’autore degli stessi, sia per permettere il controllo sul provvedimento e, dunque, la determinazione delle relative responsabilità, sia per scongiurare il più possibile il rischio di future riproduzioni.
L’atto amministrativo dopo il D. Lgs. 39/1993: l’atto amministrativo informatico
Il comma 1 dell’art. 3 del D. Lgs. 39/93 universalizza l’obbligo per tutte le pubbliche amministrazioni di predisporre gli atti amministrativi tramite i sistemi informativi automatizzati. Ma ciò che qui più interessa è il comma successivo e la reale portata che lo stesso ha avuto nel mondo del diritto.
Tale secondo comma, infatti, oltre a conferire valore normativo all’esigenza di conoscere la provenienza e il responsabile degli atti amministrativi emanati attraverso i sistemi informatici o telematici, prevede espressamente che “se per la validità di tali operazioni e degli atti emessi sia prevista l’apposizione di firma autografa, la stessa è sostituita dall’indicazione a stampa, sul documento prodotto dal sistema automatizzato, del nominativo del soggetto responsabile“.
Con tale articolo sembrava si fosse “sorpassata” la necessità della sottoscrizione autografa del soggetto titolare dell’organo deputato a emanare l’atto amministrativo, in quanto si conferiva legislativamente una generale validità a tutti i provvedimenti amministrativi che, seppur mancanti della firma, contenevano l’indicazione a stampa del soggetto che lo aveva posto in essere. In tal modo, infatti, apparivano soddisfatte le esigenze che poi sono alla base della sottoscrizione stessa, ovvero:
- la riferibilità dell’atto a un soggetto individuato come appartenente a una determinata PA;
- conseguentemente, la maggior garanzia in mano ai cittadini in termini di controllo dell’operato della PA.
In realtà, la reale portata applicativa dell’art. 3 comma 2 del D. Lgs. 39/93 è stata via via ridimensionata dalle successive pronunce giurisprudenziali, ma soprattutto dal Codice dell’Amministrazione Digitale, anche alla luce della sua recente novella ad opera del D. Lgs. 235/2010.
Da un lato, infatti, la giurisprudenza ha limitato l’ambito di applicazione della suddetta norma agli atti certificativi e ai c.d. “atti amministrativi in senso stretto“, ovvero a quegli atti provenienti dalla PA la cui emanazione non richiede una valutazione discrezionale, né una motivazione calibrata al caso concreto. In altre parole, l’intento semplificatorio della citata legge veniva circoscritto a quegli atti amministrativi seriali che, appunto perché non necessitano di una ponderazione degli interessi coinvolti, vengono elaborati direttamente ed automaticamente dal sistema informatico della PA procedente. Al contrario, quando dall’atto amministrativo possono scaturire effetti gravemente lesivi nella sfera giuridica del destinatario, l’indicazione a stampa del nominativo del responsabile non sarà più sufficiente, e sarà necessaria la firma autografa o, quantomeno, un sicuro metodo che garantisca la certa attribuzione di paternità del documento e, dunque, l’individuazione dei soggetti ai quali imputare la volontà esternata[1].
Dall’altro, poi, anche la normativa succedutasi non solo ha stravolto la portata dell’art. 3 comma 2 del D. Lgs. 39/93, ma altresì l’ha resa assolutamente anacronistica ed inapplicabile. L’art. 24 comma 2 del CAD, infatti, prevede che “l’apposizione di firma digitale integra e sostituisce l’apposizione di sigilli, punzoni, timbri, contrassegni e marchi di qualsiasi genere ad ogni fine previsto dalla normativa vigente”. La firma digitale, dunque, essendo equiparata a tutti gli effetti alla sottoscrizione autografa, è un mezzo alternativo a quest’ultima per l’attribuzione della paternità del documento. Tale affermazione:
- è una conferma del fatto che il segno grafico della sottoscrizione autografa non è l’unico mezzo per identificare il soggetto che pone in essere l’atto amministrativo;
- comporta che l’apposizione della firma digitale sul documento amministrativo sostituisce e rende inutili ogni tipo di riferimento (quali la carta filogranata, l’esistenza di un timbro a secco etc. correlati comunque al documento amministrativo cartaceo) e diverso dalla sottoscrizione, che fino a poco tempo fa era considerato uno strumento per ricondurre un determinato provvedimento al suo autore.
Se le amministrazioni devono utilizzare gli strumenti informatici per esternare la propria attività e, dunque, creare atti amministrativi, tutte queste “indagini sul cartaceo” alla scoperta di segni identificativi della provenienza dell’atto non hanno ragion d’essere: ecco che appare assolutamente contraddittoria l’esigenza di analizzare il cartaceo, quando l’atto amministrativo dovrebbero nascere come documento informatico sigillato solo dalla firma digitale.
Un ritorno al passato: il Glifo
Su Saperi PA trovate il testo del CAD già coordinato con le modifiche pubblicate nel decreto legislativo n. 235/2010
Eppure neanche il CAD, soprattutto a seguito della recente modifica operata con il D. Lgs. 235/2010, risulta indifferente a questo passaggio irrinunciabile al cartaceo, il cui senso sfugge a chi scrive: prova ne è l’art. 23-ter che, al comma 5, introduce il “Glifo”, ovvero “un contrassegno generato elettronicamente, formato nel rispetto delle regole tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 71 e tale da consentire la verifica automatica della conformità del documento analogico a quello informatico”. Tale contrassegno costituirebbe una specie di sigillo che deve essere apposto a stampa e che ha la funzione di “assicurare la provenienza e la conformità all’originale, sulle copie analogiche di documenti informatici”.
La stampa dei documenti amministrativi informatici, dunque, appare di nuovo un bisogno irrinunciabile che il legislatore non manca di disciplinare, seppur con intenti di semplificazione…
In sostanza, i documenti che il cittadino acquisisce per via informatica e stampa dal suo computer personale avranno la stessa validità dei documenti originariamente prodotti dalla Pubblica Amministrazione proprio “grazie” a questo contrassegno creato elettronicamente, che garantirebbe la conformità di quella stampa all’originale in possesso della PA. Quali siano le modalità con cui sarà realizzata questa operazione non possiamo ancora saperlo in quanto non è stato ancora emanato il già annunciato decreto ministeriale contenente le regole tecniche per l’effettiva introduzione ed utilizzo del Glifo; probabilmente esso consisterà in un’immagine bidimensionale in cui viene contenuta l’immagine del documento originale creato e detenuto dalla PA.
Stando a quanto previsto dal comma 3 dell’art 23-ter del CAD viene conferito al Glifo un potere di assicurare la conformità all’originale molto simile al potere di autentica che è sempre stato ed è ancora (vedasi lo stesso CAD, che, all’art. 25, presuppone comunque l’opera del pubblico ufficiale per l’autentica della firma elettronica, sia essa avanzata o no) nelle mani di un pubblico ufficiale. Ci si chiede come possa un software sostituirsi alla persona fisica a cui la legge stessa conferisce tale potere certificativo: per quanto funzionale ed affidabile possa essere, il programma che genera il Glifo non può fare le veci di un pubblico ufficiale! Né può sottacersi che tale timbro sul documento stampato dal cittadino possa essere facilmente contraffatto, con tutto ciò che ne deriva in termini di assoluta mancanza di certezza nei rapporti giuridici con la PA emanante. Da ciò l’impossibilità, per il Glifo, di offrire quelle garanzie di provenienza dell’atto che fino a poco tempo fa erano soddisfatte, ad esempio, dalla stampa del provvedimento su un particolare tipo di carta filogranata utilizzata solitamente da quella PA emanante. Solo alla firma digitale è riconosciuta la possibilità di sostituire, ai fini della validità dell’atto stesso, elementi quali timbri punzoni o carta filigranata richiesti dalla legge.
Se non può avere questa funzione certificativa, allora qual è la “vocazione” del Glifo? Sicuramente il Glifo non è requisito di validità dell’atto amministrativo, in quanto, come si è detto, questa può essere garantita solo dalla firma digitale.
Sarebbe più corretto ammettere una funzione di assicurazione del Glifo, limitatamente alle certificazioni da rilasciarsi ai cittadini in carta semplice, prevedendo sempre la presenza del Pubblico Ufficiale nel caso in cui sia necessaria l’autentica.
Il Glifo sarebbe, quindi, deputato a offrire una certa garanzia di certezza per la circolazione del documento, solo quando si tratti di certificazioni in carta semplice che il cittadino può liberamente stampare da casa propria. Non sembra, dunque, potersi realizzare, in concreto, quello che era inizialmente l’intento del legislatore, ovvero di offrire ai cittadini la possibilità di procurarsi direttamente copie analogiche degli atti amministrativi informatici originali detenuti dalla PA procedente, aventi lo stesso valore giuridico di questi ultimi. L’introduzione del Glifo, anzi, appare un passo indietro rispetto ai traguardi raggiunti con l’emanazione del D. Lgs. 82/2005, in quanto si sostanzia in una specie di “riedizione” dell’art. 3 comma 2 del D. Lgs. 39/93, che ha già conosciuto un ridimensionamento prima e un superamento poi non solo ad opera della giurisprudenza, ma anche dallo stesso CAD, con l’introduzione della firma digitale.
Sarà molto probabile, dunque, che quanto è accaduto per il citato art. 3 comma 2 del D. Lgs. 39/93 avvenga presto anche per il Glifo, il quale, una volta introdotto e regolato compiutamente, vedrà la sua concreta attuazione necessariamente limitata progressivamente agli atti certificativi, o, comunque seriali, rilasciati al cittadino in copia semplice.