Il contratto di merchandising, un esempio di sfruttamento del marketing emozionale. A cura di Annalisa Spedicato

Il contratto di merchandising, un esempio di sfruttamento del marketing emozionale.


 


 


A cura di Annalisa Spedicato (Studio Legale Lisi)


 


Troppe volte si sente dire che il cliente è cambiato, molto più informato e molto meno fedele ad un solo marchio o ad una singola impresa. Troppe volte si sente dire che il business si è allontanato dal concetto concreto di vendita, assumendo altri significati e che la comunicazione d’impresa si è vestita di simboli inespressi, metafore valoriali sottese ad un linguaggio apparentemente quotidiano. Ma perché la promotion, quarta leva del marketing mix, decide di complicare il suo linguaggio?


Ebbene, queste strategie comunicative sono utili all’azienda per stabilire un legame duraturo con il cliente, in una parola, servono a fidelizzare il cliente, entrando nella sua anima, nel tentativo, forse, a volte, spregiudicato, di diventarne il partner ideale.


Sulla scia di un mondo i cui valori pare stiano andando alla deriva, dunque, è il business a utilizzare il linguaggio del dovere essere per fini esclusivamente commerciali e di vendita che in realtà esulano dall’aulico scopo censore che tali valori dovrebbero avere. Ma si sa, gli affari non guardano in faccia nessuno e quando persino giocare con le emozioni consente di ottenere buoni frutti, in termini di fatturato, allora tutto è lecito, così, anche i sentimenti si fanno misurabili e diventano uno strumento che genera un ROI positivo per l’azienda.


Accantonata dunque la logica del bisogno/acquisto, in coerenza con gli insegnamenti di Maslow e della sua piramide, anche la comunicazione d’impresa risponde a necessità di natura psicologica e sociale.


Una delle tecniche per il successo delle piccole e medie imprese, nei mercati concorrenziali, riguarda la valorizzazione del marchio, attraverso l’uso di una comunicazione integrata che risponda alle esigenze emozionali del consumatore.


Nella nostra epoca, il marchio, infatti, non è solo un mezzo idoneo a svolgere una funzione distintiva o di garanzia, ma diventa anche e soprattutto strumento evocativo. Questo significa che il marchio si svincola dalla realtà concreta del prodotto/servizio per assurgere ad una posizione immateriale di gran lunga superiore. Il marchio, quindi, lasciando l’area dei bisogni primari, risponde a bisogni di appartenenza, di gruppo, di autorealizzazione, di successo e di stima. Non si vende più solo il prodotto, ma si vendono sogni, desideri, filosofie ed il marchio diventa il protagonista indiscusso degli affari.


Trasformatosi in bene indipendente dall’impresa che lo ha generato, il marchio si vende da sé, quale bene evanescente che da solo genera business, contratti e profitto. Un bene che dunque può circolare ed essere ceduto tramite contratti di compravendita o concesso in uso, attraverso licenze.


Un tipo di contratto di licenza d’uso del marchio è il merchandising, ovvero una licenza con cui il licenziante (merchandisor) concede ad un terzo (merchandisee) il diritto di apporre il marchio su prodotti totalmente diversi per natura e caratteristiche, rispetto a quelli per i quali il marchio stesso è stato ideato ed eventualmente registrato.


Il primo esempio di contratto di merchandising è americano e risale al secolo scorso, quando la Walt Disney concesse ad un’azienda terza, la possibilità di usare l’effige di Topolino per la realizzazione di diari scolastici.


La ratio del contratto di merchandising consiste nello sfruttamento della notorietà del marchio ed dei valori ad esso sottesi.


In realtà, entrambe le parti contrattuali possono trarre vantaggi da un simile contratto.


Il merchandisor, ad esempio, può sfruttare la notorietà del marchio per entrare ed esplorare una nuova area di mercato, valutando da una posizione privilegiata, la convenienza di tale mercato. Attraverso una minore esposizione, infatti, il merchandisor ridimensiona i rischi eventualmente causati da un rallentamento della domanda nello specifico settore produttivo.


Inoltre, l’investimento fatto dal merchandisor è solitamente minimo, a fronte di un ritorno che invece può essere notevole.


Infatti, mentre il merchandisor solitamente si impegna a mantenere e rinnovare la registrazione del marchio, estendendola anche nelle aree di mercato e nelle classi merceologiche in cui opera, il merchandisee, è la parte contrattuale cui incombono gli investimenti notevoli, necessari per la predisposizione del piano marketing, delle analisi e delle ricerche di mercato, degli studi sulla notorietà del marchio, fondamentali per definire il valore delle royalties.


Il merchandisee deve dimostrare particolare accortezza nelle analisi, per evitare di pagare delle royalties sconvenienti rispetto ai quantitativi di vendita; il che  inciderebbe in maniera effettivamente negativa sul fatturato.


Un esempio di costo minimo e massimo profitto, è offerto dall’azienda italiana Gucci che nel 1996, grazie alla sola concessione della licenza per la produzione di orologi, rilasciata alla società svizzera Severil Montres, ha incassato delle royalties per ben 34 milioni di franchi svizzeri (si veda Journal de Genève  6-7 Dicembre 1997 p. 21)


D’altro canto, il merchandisee ha la possibilità di ricavare un utile vantaggio da un segno già carico di significati, che è già in empatia con il consumatore, evitando i notevoli investimenti necessari per creare un’immagine  inesistente. In tal caso, infatti, la positività del marchio e la qualità percepita dal consumatore si trasferiscono automaticamente sul nuovo prodotto/servizio, caricandolo degli stessi significati e dello stesso valore già presente nel marchio.


E’ consigliabile che il merchandisor inserisca nel contratto, come forma di tutela preventiva, clausole rigide che riguardano il prodotto/servizio, il packaging, la distribuzione, la promotion, in modo da costringere il merchandisee a mantenere una certa identità aziendale e fare in modo che anche i servizi offerti sotto l’egida del marchio licenziante, ma non direttamente prodotti dall’azienda titolare del marchio stesso, riflettano la vision del merchandisor, il suo posizionamento nel mercato e la sua corporate identity.


Per quanto concerne le royalties invece, solitamente sono calcolate come percentuale sul prezzo di vendita, avendo come riferimento il guadagno unitario oppure il costo di produzione. Possono essere delle percentuali fisse o, come accade più spesso, flessibili, espresse in relazione alle previsioni sui livelli di fatturato. Abitualmente, il merchandisor stabilisce il pagamento di una royalty minima garantita, assicurandosi comunque un profitto, indipendentemente dal fatturato raggiunto.


 


Altra clausola fondamentale da inserire nei contratti di merchandising è quella che concerne la esclusiva gestione, ad opera della licenziante, delle questioni giudiziarie contro eventuali  contraffattori. Da non dimenticare quelle clausole che riguardano la perdita della licenza per assenza dell’uso effettivo del marchio da parte del merchandisee. La maggior parte delle legislazioni sui marchi, infatti, prevedono una decadenza per non uso del marchio protrattasi per 5 anni; ma indipendentemente da questo, è interesse prioritario per il merchandisor che la licenza concessa venga effettivamente sfruttata e che i mercati da battere vengano effettivamente penetrati, pena una perdita economica e di immagine a fronte dell’eventuale presenza di prodotti contraffatti.


 


Da questa sintetica descrizione emerge come il contratto di merchandising sia solo l’anello ultimo di una catena più complessa che parte da analisi e studi di mercato, ricerche sulla concorrenza, sull’azienda licenziataria e che solo alla fine si conclude con la predisposizione del contratto vero e proprio. Ecco perché chi predispone questo tipo di contratti non può chiudersi ed avere una conoscenza esclusiva e solitaria della materia giuridica, esulando da concetti di marketing, di comunicazione e di sociologia, ma deve necessariamente avere un bagaglio culturale che sia aperto anche verso tali argomenti, solo così infatti è possibile arrivare ad avere una corretta gestione dell’immagine aziendale e un positivo sfruttamento di quello che costituisce la proprietà valoriale di un’azienda, spesso molto più profittevole del prodotto concreto da essa offerto.

Redazione13 Gennaio 2016