Fatture non pagate e diffusione su Facebook dell’inadempimento: non c’è diffamazione

di Enrica Maio
A stabilirlo è stato il Tribunale di Roma con una ordinanza, attraverso la quale ha rigettato il reclamo ex art. 700 c.p.c. di una società che chiedeva di inibire la diffusione dei contenuti, a suo dire, diffamatori e offensivi per la propria reputazione commerciale e di rimuovere l’argomento di discussione presente sulle pagine dei vari social network del resistente (tra cui Facebook), ossia di colui che aveva il diritto di vedersi corrisposto il pagamento per i servizi offerti alla società ricorrente.
In particolare, tra le parti era sorto un rapporto commerciale che prevedeva la prestazione di un servizio pubblicitario, ma tale rapporto era entrato in una fase di criticità in quanto la partnership non aveva condotto ai ricavi sperati; a tal punto, il creditore aveva iniziato a divulgare, all’interno di diversi social network e blog, alcuni post con cui informava i propri contatti e “follower” dell’inadempimento della società debitrice.
Il Tribunale, non solo ha respinto la domanda della società ricorrente, ma l’ha anche condannata al pagamento delle spese legali.
Nello specifico, secondo il Collegio, le dichiarazioni censurate costituiscono espressione del diritto di libera manifestazione del pensiero, sancito dalla nostra stessa Carta Costituzionale all’art. 21, il quale testualmente stabilisce che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Ad avviso dei giudici romani, le dichiarazioni del resistente diffuse in rete, e in generale la divulgazione di uno scritto via internet, rappresentano l’estrinsecazione del legittimo diritto di cronaca e critica, e quindi di libertà di manifestazione del pensiero, alla luce dell’art. 21 della Costituzione; infatti, entrando nel merito del caso, i contenuti diffusi sui vari social network erano rispettosi dei requisisti di pertinenza, continenza e verità, non configurandosi, quindi la fattispecie di reato ex art. 595 c.p., ossia il reato di diffamazione.
Infatti, anche secondo la più consolidata giurisprudenza, la divulgazione di notizie o commenti lesivi dell’onore e della reputazione di terzi può considerarsi lecito esercizio del diritto di cronaca e di critica (in base alla scriminante dell’esercizio di un diritto, di cui all’art. 51 c.p.), se ricorrono:
• la verità dei fatti esposti;
• la correttezza formale dell’esposizione;
• l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto.
Nel caso di specie, incontestabile era la verità della notizia riguardante l’inadempimento della reclamante all’obbligo del pagamento nei confronti della resistente; in più, nei post divulgati in Rete non erano presenti espressioni offensive e volgari nei confronti della parte debitrice. Forse, l’unico dubbio potrebbe sorgere relativamente all’altro requisito indicato, ossia in merito all’interesse pubblico alla conoscenza del fatto. 
Secondo il Tribunale di Roma, però, anche tale condizione è soddisfatta: nell’ordinanza non ne viene spiegata la motivazione, probabilmente essa è da ricondursi all’interesse pubblico di tutti gli imprenditori nel sapere se una determinata azienda non adempia al pagamento delle forniture e/o dei servizi.
In conclusione, dunque, il Tribunale di Roma ha ritenuto lecita la diffusione sul web della notizia relativa al mancato pagamento delle fatture da parte di una società, qualora ricorrano le condizioni innanzi richiamate. Il diritto di cronaca e di critica, quindi, è tutelato anche se, dalla diffusione di determinati contenuti, può derivare una potenziale lesione della reputazione di un soggetto, in quanto espressione del diritto alla libera manifestazione del pensiero, tutelato dall’art. 21 della Costituzione.