Dalla digitalizzazione dei processi alla cultura del digitale: la centralità della persona e della “materia prima”

Chi ha vissuto l’epoca “pionieristica” dei personal computer ricorda perfettamente la frenetica rincorsa tecnologica a strumenti sempre più performanti ed efficienti. Il focus in quel periodo era essenzialmente sugli strumenti, le informazioni erano la “materia prima” da dare in pasto al PC perché potesse essere opportunamente triturata, elaborata e ricomposta, possibilmente in fretta.

Era l’epoca della cosiddetta “alfabetizzazione informatica”, con la proliferazione dei relativi (assurdi) corsi di formazione, nella quale almeno una generazione è cresciuta nutrendosi di informazioni sostanzialmente inutili, come il codice binario, il linguaggio macchina, e altre amenità del genere, tralasciando il vero elemento sul quale concentrare l’attenzione formativa: l’informazione in quanto tale e, soprattutto, la sua centralità rispetto a qualsivoglia strumento si utilizzi per trattarla, attraverso la progettazione di nuovi modelli di comunicazione.
Prima occasione persa per una vera digitalizzazione.

 

Una digitalizzazione “di fatto”

Sapere è potere” un’espressione che assumeva un senso in un’epoca in cui le informazioni erano prevalentemente, se non unicamente, cartacee. L’accesso era difficile e limitato a quei pochi che avrebbero poi usato questo sapere come leva di potere.

Oggi, invece, chiunque può avere accesso ad una mole di informazioni virtualmente illimitata, quindi si potrebbe pensare che tutti abbiano in mano il potere. Sappiamo bene che non è così. Diciamo che oggi tutti sanno, ma pochi capiscono e pochissimi comprendono le informazioni a cui hanno accesso.

Questa diffusione su larga scala e così “democratica” è il risultato del passaggio dall’analogico ad una nuova forma prettamente digitale, affermatasi con la larga diffusione degli strumenti per il trattamento automatico delle informazioni, con lo scopo di abbreviarne i tempi di raccolta, analisi, distribuzione. Siamo immersi in una digitalizzazione “di fatto” dell’informazione, senza nemmeno rendercene conto, e avendo in mano pochissimi strumenti per governarla, almeno dal punto di vista della gestione.

 

La centralità della persona e della “materia prima”

Oggi ben comprendiamo che la digitalizzazione dei processi non consiste nello slogan eliminiamo la carta dagli uffici, ma nell’interpretare la collocazione e l’utilizzo degli strumenti in modo innovativo, puntando ad una reale, nuova dimensione evolutiva fatta anche di strumenti, ma soprattutto di riorganizzazione del flusso informativo.

Questo obiettivo, indubbiamente ambizioso, può essere perseguito solo coinvolgendo ogni singola componente aziendale, per prima quella umana, per riorganizzare i processi e migliorare l’efficienza gestionale, pena la perdita di performance aziendale e quindi di competitività.

Quindi la digitalizzazione (dei processi) non nasce e non si sviluppa attorno alle macchine o attraverso di esse, ma riportando al centro le persone, formandole alla consapevolezza dei meccanismi, dei nuovi flussi informativi.

Questo approccio comporta anche un diverso atteggiamento nella gestione delle informazioni, che deve avvenire in tempi sempre più brevi e senza soluzione di continuità. Da un lato, allora, si deve recuperare la centralità della persona e dall’altro si deve riaffermare con forza la necessità di gestire con efficienza le informazioni come “materia prima”, comprendere come si formano, dove si trovano, qual è il loro flusso, come si utilizzano, dove e come si archiviano e dove e come si conserveranno, se necessario.

In queste ultime righe è riassunta l’ovvietà del corretto trattamento dei dati, ma è proprio questa ovvietà ad essere disattesa nella maggior parte delle realtà produttive e, si badi bene, non solo delle piccole realtà ma anche di quelle più grandi e strutturate.

 

L’ovvietà dell’informazione nel contesto aziendale

Per superare ogni dubbio basterebbe intervistare qualsiasi impiegato, sia esso in uno studio di professionisti piuttosto che in un’azienda manifatturiera, chiedendo semplicemente dove sono fisicamente i dati (le informazioni) che sta trattando, se è consapevole della propria responsabilità e se c’è qualcun altro che vi ha accesso, quando e in che modo.

Non spingetevi poi a chiedere se sanno come le informazioni vengano messe in sicurezza o se vengano conservate, per una piccola azienda la risposta è un laconico “non so..” in una azienda più strutturata vi diranno che “ci pensa il CED”.

Con l’introduzione del GDPR si sarebbe dovuto cogliere l’occasione per (ri)affermare proprio la centralità dei dati rispetto alla gestione del flusso informativo, nel rispetto dei diritti (e dei doveri?) della persona, e per fare chiarezza, in termini organizzativi proprio sul flusso informativo, invece pare che sia passato prevalentemente il concetto di una sorta di “nuova privacy 2.0”. L’ennesima occasione persa.

Si dovrebbe quindi passare dalla semplice digitalizzazione dei processi, che spesso è poco più di un enunciato, ad una vera e propria “Cultura del digitale” (la C maiuscola è voluta…).

Se le aziende, da un lato, si sono mostrate sensibili ad aggiornare i loro asset in funzione dell’evoluzione tecnologica (si pensi a quanto messo in campo con il progetto Industria 4.0) è indubbio che non hanno mostrato altrettanta sensibilità nei confronti delle risorse umane e di un adeguamento delle loro competenze attraverso un opportuno e mirato percorso di formazione.

 

La formazione come elemento di competitività: un’utopia?

La formazione nell’ambito della trasformazione digitale assume un ruolo centrale ed innovativo, infatti se è vero che consente di formare nuove skill mancanti o riconvertire quelle esistenti, permette anche, attraverso la miglior efficienza comunicativa interna di creare nuove forme di sinergia che facilitano la trasmissione di competenze, oltre che di semplici informazioni.

La formazione dovrebbe essere vista come un processo continuo e in costante divenire, e non essere considerata come un intervento una tantum fine a sé stesso. La formazione come elemento di competitività: è un’utopia? Se l’atteggiamento delle aziende è quello attuale sì, se invece si renderanno conto che solo chi è formato (non informato o peggio addestrato) assume un vero atteggiamento proattivo nei confronti dei mutamenti e delle nuove sfide poste dal mercato, rendendo alla fine la gestione delle informazioni più semplice, efficiente e produttiva.

 

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L’autrice, Arianna Crepaldi, si occupa di formazione, consulenza e fornitura di servizi informatici alle PMI negli ambiti che riguardano la gestione aziendale, la messa in sicurezza dei dati, la gestione documentale e l’adeguamento normativo.

È una componente del D&L NET, consulta qui il suo profilo.