Videosorveglianza nei luoghi di lavoro: l’accordo con i dipendenti non basta!

La vicenda riguarda un datore di lavoro (titolare di un negozio) che nel 2014 aveva installato un impianto di videosorveglianza in difetto delle condizioni di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 4, ma previo accordo scritto con i dipendenti.

Una procedura tuttavia insufficiente a colmare il mancato rispetto delle condizioni previste dallo Statuto dei lavoratori[1], secondo quanto stabilito la Suprema Corte di Cassazione che con sentenza 1733/2020 ha dichiarato che non basta un accordo scritto con i dipendenti per consentire l’installazione di un impianto di videosorveglianza sui luoghi di lavoro.

 

Il consenso scritto del lavoratore è necessario?

Secondo l’art.4 dello Statuto dei lavoratori “Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali.(…).In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione delle sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro(..).

È chiaro che non esiste un’unica possibilità. L’alternativa nella scelta di affidare la regolamentazione di tali interessi alle rappresentanze sindacali o ad un organo pubblico, con esclusione della facoltà che i lavoratori possano autonomamente provvedere al riguardo, trova la sua ratio nella considerazione dei lavoratori come soggetti deboli del rapporto di lavoro subordinato.

In ragione della diseguaglianza esistente tra datore di lavoro e lavoratore, in caso di mancato accordo per l’installazione degli impianti di videosorveglianza, interviene l’autorizzazione territoriale del lavoro e non già il consenso dei singoli lavoratori.

Infatti, il consenso del lavoratore all’installazione di un’apparecchiatura di videosorveglianza, in qualsiasi forma prestato (anche scritta, come nel caso di specie), non serve ad avvalorare la condotta del datore di lavoro che abbia installato i predetti impianti in violazione delle prescrizioni dettate dalla fattispecie incriminatrice, dunque in assenza di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali e di provvedimento autorizzativo dell’autorità amministrativa.

 

Il ruolo delle rappresentanze sindacali

Il compito  delle rappresentanze sindacali è quello di riscontrare  se gli impianti audiovisivi, dei quali il datore di lavoro intende avvalersi, da un lato, possano o meno ledere la dignità dei lavoratori a causa della loro potenzialità di controllo a distanza, dall’altro, quello di verificare l’effettiva rispondenza di detti impianti alle esigenze tecnico-produttive o di sicurezza in modo da disciplinarne, attraverso l’accordo collettivo, le modalità e le condizioni d’uso ,in modo da legittimare la loro installazione.

Sia l’accordo che il provvedimento autorizzativo devono rispettare i principi e le regole stabiliti dall’interpretazione prevalente della normativa lavoristica in tema di controllo nonché dalla disciplina sul trattamento dei dati personali.

 

La tutela degli interessi collettivi

Infine è importante considerare il peso della condotta datoriale: se il datore di lavoro procede all’installazione degli impianti di videosorveglianza senza tener conto dell’interlocuzione con le rappresentanze sindacali unitarie o aziendali oltre ad avere un comportamento illegittimo e penalmente sanzionabile, produce l’oggettiva lesione degli interessi collettivi di cui le rappresentanze sindacali sono portatrici.

Dalla diseguaglianza esistente tra datore di lavoro e lavoratore emerge  come non abbia alcuna rilevanza il consenso scritto o orale concesso dai singoli lavoratori: la tutela infatti, è rivolta alla salvaguardia di interessi collettivi di cui, le rappresentanze sindacali, sono portatrici, e non ai singoli lavoratori che, a causa della posizione di svantaggio nella quale versano rispetto al datore di lavoro, potrebbero rendere un consenso viziato.

 

[1] In particolare, le condizioni di cui all’art. 4, I. n. 300 del 1970

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